martedì 6 maggio 2008

Genealogia di Napolitano


POSTO DI SEGUITO UN PEZZO SU GIORGIO NAPOLITANO DEL 1997.


Alla luce di recenti dichiarazioni sulla necessità della stampa di sopraffare internet e sulla speranza di un nuovo ordine mondiale, reputo sia molto interessante una retrospettiva sul soggetto, ad oggi capo dello stato italiano e, in quanto tale, ormai inattaccabile se non innominabile (negativamente) in qualsiasi tipo di dibattito su TV radio e giornali.
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Perfino al Ministero dell’Interno- il ministero della Polizia, l’organo a cui il PDS (ex Pci) non rinuncerà assolutamente (ha un progetto storico per assoggettare tutte le polizie al suo potere politico) - viene messo sì un membro del Partito; ma è l’unico post comunista noto e gradito al “governo mondiale di fatto”. S’introduca qui Giorgio Napolitano, già presidente della Camera, la cui stella ha cominciato a brillare più fulgida sotto il governo Ciampi.

Napolitano: il solo comunista con il visto permanente per gli USA, anche negli anni della guerra fredda. Il gentiluomo di casa alla Fondazione Agnelli. Il compagno per cui votano 30 mila compagni elettori di Caserta, fedeli al motto: non capisco, ma mi adeguo. Lo zoccolo duro, si sa, è lento a capire.

Lui, il Migliorista, aveva chiara la traiettoria del Partito Operaio già nell’85: “E’ il riformismo europeo il punto di approdo del PCI”. E’ stato ancora più chiaro, questo compagno gentiluomo, così somigliante a Re Umberto (forse per questo parlando di sé, usa il plurale majestatis?) in un’intervista rilasciata il 6 marzo ‘92: “Ci caratterizza l’antica convinzione che il Pci abbia tardato a trasformarsi in un partito socialista democratico di stampo europeo”. Ora che l’Italia è in amministrazione controllata per conto del Sistema angloamericano, Napolitano sente (o s’illude) che sia venuto il momento di dar corpo alla sua antica convinzione. “Serve uno sforzo per trovare nuove aggregazioni”, ha dichiarato: il sistema maggioritario uninominale “rende possibile una scelta chiara da parte dei cittadini di raggruppamenti che tendano ad alternarsi nel governo del Paese”.

Il suo progetto è dunque chiaro. Napolitano condivide da antica data il disegno che vorrebbe ridurre la scena politica italiana al modello del “bipartitismo perfetto” made in United Kingdom, della “democrazia funzionante” made in Usa: due formazioni, una “conservatrice” e una progressista”, ma entrambe “laiche”, che si alternano al governo di facciata, obbedienti al governo mondiale di fatto che, dietro, comanda in perpetuo da Wall Street.

Lo stesso identico progetto di La Malfa, di Maccanico, di Segni: quello a cui si allude, nel Nuovo che Avanza, come al “problema dell’alternanza”. Chissà che, visto da Wall Street, proprio Napolitano non sia uno dei possibili candidati alla guida del futuro Democratic Party italiano.

Dopotutto Napolitano, all’indomani del crollo del comunismo all’Est, auspicava per il Pci “un ricongiungimento fecondo con la cultura “laica” nel passato confrontatasi aspramente con la cultura marxista”.

Un segnale chiaro per gli Iniziati.

Di fatto, Napolitano, sembra l’erede di un progetto “laico-borghese” che è annidato da generazioni nel Pci e, come un virus opportunista, ha aspettato le condizioni per diventare attivo. Non a caso, quando i grandi giornali parlano di Napolitano, lo definiscono “l’allievo più brillante di Amendola”. Il riferimento è a Giorgio Amendola. Comunista sui generis, a cui lo stesso Napolitano ha attribuito la paternità del progetto: “La ricerca sul piano ideale, culturale e politico di una saldatura tra liberalismo e socialismo”.

Giorgio Amendola partì da gobettiano e “arrabbiato anticomunista”. Negli anni ‘30 la sua tesi di laurea sul “credito al consumo”, ossia sulle vendite rateali, finanziate dal venditore, come mezzo per “facilitare l’incontro tra domanda e offerta e allontanare così i rischi di sovrapproduzione”: un cavallo di battaglia del neocapitalismo Americano. “Adoratore dell’economia classica inglese” (la free market economy), Giorgio Amendola si avvicinò ai comunisti solo perchè convintosi che il fascismo “colpiva principi comuni al liberalismo e al socialismo”.

Del socialismo, del resto Giorgio Amendola aveva un’idea sua: “Socialismo”, scriveva, “non è il frutto dell’antitesi economica del lavoro contro il capitale (…) Socialismo è l’idea liberale formulata ideologicamente dalla forza più efficiente della nostra epoca: il proletariato”. Un’idea da far rivoltare Marx nella tomba, ma non molto lontana dal preconizzare quella “alleanza fra produttori” (capitalisti e lavoratori, le due forze “più efficienti”) proposta, non molti anni fa, da Cesare Romiti. Detto tra noi, è questa segreta simpatia, questa voglia di adottarsi l’un l’altro delle due forze “efficienti” che spiega l’annosa cordialità dei rapporti tra Fiat e Cgil, tra Fiat e i sindaci torinesi targati Pci.

Amendola fu il precursore del percorso inevitabile del comunismo da avanguardia del proletariato a partito radicale di massa, neo-borghese aspirante a collaborare con il neocapitalismo. Conclusione inevitabile: definendosi Giorgio Amendola “materialista storico, ma non nell’interpretazione dei signori positivisti”, gli era ineluttabile finire per ammirare il solito materialismo storico vincente: quello che considera la Finanza (il Capitale) la sola realtà, e tutto il resto - patrie, religioni, tradizioni umane - mera sovrastruttura, fastidiosi inciampi per il mercato che aspira a farsi mondiale. Ciò che Amendola scriveva nel 1929, sul punto di farsi o credersi comunista, potrebbe essere del resto sottoscritto da ogni iniziato del Bilderberg e del Mercato Unico: “Ci dobbiamo accingere all’opera della nuova costruzione di un’Italia europea e occidentale, ossia liberale”. Pensiero vicinissimo a quello di Monnet, di Agnelli, di Kissinger, e lontanissimo da Cipputi.

Non ci si deve quindi stupire se Giorgio Amendola ha avuto, finchè visse, un seggio accanto a Gianni Agnelli nell’Istituto di Affari Internazionali (Iai), una fondazione culturale ricalcata sul Council for Foreign Relations di Rockfeller, e fondata da Altiero Spinelli, altro anomalo socialista- tecnocrate votato a un europeismo oligarchico. Ancor meno stupirà sapere che Giorgio Amendola era, già nel 1924, amico intimo di Ugo La Malfa (come testimonia Napolitano, suo devoto biografo) e di Raffele Mattioli: il banchiere della Commerciale, il congiurato-promotore del Partito d’Azione. Quel Mattioli, insomma, che alla Comit allevò tutti i cuccioli italiani del supercapitalismo con ambizioni internazionaliste: da Enrico Cuccia a Adolfo Tino, da Maccanico a La Malfa, da Merzagora a Fenoaltea a Colorni, fino a Giovanni Malagodi. Personaggi con profili “conservatori” o “progressisti” che si spargeranno in partiti “di destra” o “di sinistra”, poco importa: li univa il comune Progetto.

Ma per capire meglio la radice profonda del Progetto, bisogna risalire ancora di una generazione. Come da Napolitano siamo risaliti al suo padre spirituale, Giorgio Amendola, così da Giorgio dobbiamo arrivare, ripercorrendo il tempo a rebours, al papa fisico: Giovanni Amendola.

L’austero aventiniano, l’antifascista storico, il fondatore de Il Mondo nel 1922. Fu Giovanni Amendola a introdurre il figlio nel mondo della Banca Commerciale, e anche qui non c’è da stupire: Giovanni Amendola era uomo di vasti interessi, non solo politici ma, come dire?, occultistici. Conobbe suo moglie, l’ebrea lituana Eva Kuhn, nella sede romana della Società Teosofica; e antifascista com’era, frequentava anche Arturi Reghini, massone “esoterico” e “mago” pitagorico, anticlericale d’estrema destra, scopritore di Julius Evola. Nel 1905, Giovanni Amendola fu iniziato alla Loggia “Romagnosi” di Roma; e quando fondò Il Mondo, furono molti i “fratelli” che patrocinarono il giornale come loro organo ufficioso. Quanto all’altra creatura di Amendola-padre, l’antifascista Unione Democratica Nazionale, vi affluirono- come scrive Aldo A. Mola nella sua Storia della Massoneria Italiana”, “consensi forze e iniziative dietro cui non era impossibile scorgere colleganze rafforzate da una tradizione più antica delle precarie formule partitiche”: perifrasi laboriosa per alludere alla Muratoria.

A questa “tradizione più antica” importa poca delle etichette partitiche, sempre “precarie”. Nelle sue logge, “destra” e “sinistra” sono polarità complementari, che perdono significato in una sintesi più alta, che possono essere manovrate nel Progetto iniziatico.

L’Istituzione non manca dei mezzi, nè della pazienza storica, per insinuare uomini suoi anche ai vertici del Partito di classe, dell’Avanguardia del Proletariato: magari tre generazioni amendoliane in attesa (dormienti ma vigili) del momento opportuno.

Come quello che è parso prodursi nel maggio del 1993, al momento di formare il governo Ciampi. Lassù in alto, si è desiderato che il Pds fornisse due o tre ministri al governo del Banchiere: un po’ per dare una copertura “a sinistra” all’operazione, un po’ per fare al Pds l’esame di ammissione all’Occidente: avrebbe accettato, l’ex partito dei lavoratori, di sporcarsi le mani nella politica del “rigore”, nel taglio della spesa pubblica, nello sbaraccamento dello Stato sociale, nei licenziamenti, nelle privatizzazioni volute dal Fondo Monetario?

Achille Occhetto, come sappiamo, s’è tirato indietro: ha offerto tre ministri “indipendenti di sinistra” per poi subito ritirarli, pentito.

Non se l’è sentita di rischiare: va bene partecipare alla repressione economica per conto della Finanza, ma non con il rischio - allora concreto - di elezioni anticipate imminenti, e di un crollo di popolarità.

Fateci caso: da quel momento, i giudici di Mani Pulite han cominciato a indagare anche sulle tangenti del Pds, cercando di intaccarne la “diversità”. E Occhetto è stato sostituito: chiamatelo un caso o forse, un avvertimento.

Tratto da: “Complotti III - Genocidi, eresie, nomenklature”
Il Minotauro, Febbraio 1997

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